(Andrea
Grillo) Nella sua sintesi
dei primi due giorni
di lavoro sinodale, L. Accattoli ha scritto: “Dunque
l’avvicinamento all’idea papale pare in atto. La revisione dei
tribunali, lo studio di una via non giudiziale al riconoscimento
delle nullità, la definizione di un nuovo titolo di nullità che
potremmo chiamare “incomprensione del sacramento” sono mete che
il papa già cercava in proprio.
Al Sinodo chiede il consenso per
quelle riforme e l’abbozzo di “una pastorale matrimoniale un po’
profonda” (sempre parole dell’aereo). Credo che Francesco sia
soddisfatto delle prime due giornate di lavoro sinodale”.
Non
vi è dubbio che questi siano autentici segnali
di “riforma”.
E che anche a essi mirasse il sogno sinodale concepito da Francesco.
Ma bisogna chiedersi
se questi primi segnali si muovano realmente nella
linea di una “Chiesa
in uscita”,
che rinunci decisamente alla propria autoreferenzialità.
Perché
in tutte le proposte avanzate finora ufficialmente manca precisamente
quella idea
di “pastorale”
– originata dal concilio Vaticano
II –
alla quale papa Francesco e il card. Kasper si sono riferiti nel
Concistoro del febbraio scorso. O, per dire meglio, nelle proposte
che si sono finora delineate il concetto di “pastorale” è
ridotto
e ristretto
alla modificazione dei meccanismi di accertamento della “nullità
del vincolo”.
La
storia
dei coniugi,
le loro gioie e i loro dolori, le loro difficoltà e le loro
incomprensioni, le ostilità e gli smarrimenti sono
semplicemente cancellati, retrodatati, ricondotti a una “carenza
iniziale”,
lontana, immemorabile, quasi inaccessibile. Una pastorale che si
riducesse ad ampliare a dismisura la possibilità di far valere
questo “difetto originario” non
affronterebbe la questione, piuttosto la
aggirerebbe.
E questo, anziché risolvere le cose, rischierebbe soltanto di
aggravarle.
I
lavori del Sinodo sono appena iniziati, e la speranza è che non si
rassegnino alle logiche
autoreferenziali.
Chiamo autoreferenziali quelle logiche che ragionano sul reale come
se fosse “interno” alla competenza ecclesiale. Come se fosse la
Chiesa a poter definire, ex
auctoritate,
la struttura e la forma del matrimonio naturale e istituzionale; come
se fosse la Chiesa, ex
auctoritate,
a poter stabilire nuove “cause di inesistenza” del matrimonio;
come se fosse la Chiesa, ex
auctoritate,
a poter riconoscere o meno le coscienze dei soggetti.
Se
la “indissolubilità”
fosse una “qualità naturale del matrimonio”, rispetto a cui la
stessa cristologia e pneumatologia apparirebbero quasi come
secondarie, sarebbe una metafisica e non una teologia la chiave di
volta della pastorale matrimoniale. L’accesso alla metafisica è un
pensiero, non una relazione. Per questo la “via autoreferenziale”
rimane privilegiata in questa impostazione: tuttavia un matrimonio
soltanto “pensato in sé” non è ancora all’altezza delle sfide
contemporanee.
Anzi, rischia di rimanere
irrimediabilmente “estraneo” al dibattito culturale dell’ultimo
secolo
nonché alle gioie e ai dolori dei soggetti implicati: un matrimonio
solo disciplinare, quasi condannato all’anaffettività.
La
pretesa di risolvere le questioni del matrimonio contemporaneo con
una “metafisica”
– con pretese non teologiche, ma filosofiche – è una delle forme
con cui la Chiesa si chiama fuori dalle questioni più urgenti del
proprio tempo. Soprattutto, con questo “metodo”, il Sinodo
rischia di immunizzarsi ancora una volta dalla storia dei coniugi. Li
invita a parlare e a dare testimonianza, ma li chiude nella
irrilevanza come “esseri storici”, che possono essere qualcosa di
più e di diverso rispetto a un “atto puntuale”.
Nei
vissuti dei coniugi felici e infelici ci
sono storie che, non solo a monte, ma anche a valle del consenso e
della consumazione, hanno bisogno di essere considerate in tutta la
loro rilevanza.
Se un approccio medioevale al matrimonio impedisce di dare rilevanza
a queste “storie
successive al consenso”,
la Chiesa non ha alternativa: o supera il modello di comprensione
metafisico-giuridico del Medioevo, oppure si autocondanna a non poter
dare alcun
peso reale a queste storie di vita.
Sembra ritenere di poterle affrontarle soltanto spostando
l’attenzione a quanto accaduto “prima del consenso e della
consumazione”. Questa,
appunto, non è una pastorale, ma la finzione di una pastorale.
E’ piuttosto uno stratagemma giuridico, di nobili origini, ma che
oggi non appare più coerente con le evidenze di coscienza e con le
legittime aspirazioni di uomini e donne obiettivamente non più
medioevali.
In
questi tentativi “indolori” di soluzione del problema bisogna
riconoscere che serio è l’intento, ma non è seria la modalità.
La
pastorale, d’altronde, è proprio la delicata arte delle modalità.
Pastorale, secondo il sogno del concilio Vaticano II, è la
necessaria differenza tra “sostanza dell’antica dottrina” e
“formulazione del suo rivestimento”. Pastorale dice coraggio e
intelligenza nel tradurre la sostanza della dottrina di sempre in
rivestimenti nuovi, con fedele
creatività.
Troppe
volte nel Sinodo è risuonata, invece, un’accezione di “pastorale”
come mera “applicazione” di una dottrina quasi intraducibile e
semplicemente applicabile.
Questo mi pare un deficit
teologico piuttosto grave, su cui sarà bene che i padri sinodali
trovino tempo e modo di riflettere con cura. Il cammino, che va dal
Sinodo straordinario al Sinodo ordinario, è sufficientemente lungo
perché si possa cogliere fino in fondo la portata
“pastorale”
dell’ambizione sinodale che l’iniziativa di papa Francesco ha
sollecitato con grande forza e inaugurato con legittima
soddisfazione. Ma la strada è ancora lunga.
Perfetto, complimenti: il problema di fondo é l'impostazione telogica, poi: il diritto come prima categoria per capire il matrimonio, l'analogia tra la mistica del rapporto Cristo/Chiesa ( o l'amore trinitario) e l'amore Uomo/Donna. Aggiungerei che i pur rilevanti passi sulla comprensione della sessualità umana c lasciano, come dottrina, largamente indietro rispetto al rapporto vero tra sessualità e amore. grazie
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