(Andrea Grillo) Nel corso della
sua lunga storia, il matrimonio ha suscitato le più diverse forme di
“discorso ecclesiale”. Da un lato, fin dalle fonti bibliche della
tradizione giudaico-cristiana, l’esperienza matrimoniale ha fornito
gran parte dell’immaginario di base per strutturare e articolare il
rapporto tra Dio e il suo popolo, tra Cristo e la sua Chiesa.
Tutte le figure del rapporto con lo Sposo – la fedeltà e la infedeltà, la comprensione a la incomprensione, la vicinanza e la lontananza, l’onore e il disonore, l’attesa e l’oblio, la veglia e il sonno – hanno segnato la raffigurazione “nuziale” del Signore e della sua “assemblea”, della sua “sinagoga” e della sua “chiesa”. Questo immaginario biblico, e poi patristico, ha profondamente segnato la tradizione teologica, quella spirituale, quella ministeriale e quella liturgica.
Tutte le figure del rapporto con lo Sposo – la fedeltà e la infedeltà, la comprensione a la incomprensione, la vicinanza e la lontananza, l’onore e il disonore, l’attesa e l’oblio, la veglia e il sonno – hanno segnato la raffigurazione “nuziale” del Signore e della sua “assemblea”, della sua “sinagoga” e della sua “chiesa”. Questo immaginario biblico, e poi patristico, ha profondamente segnato la tradizione teologica, quella spirituale, quella ministeriale e quella liturgica.
Su un altro
versante, gradualmente, si è formato il repertorio di una
riflessione dogmatica e disciplinare sul sacramento, che dal medioevo
in poi si è specializzato in una preziosa analisi delle condizioni
soggettive e delle modalità attuative del sacramento, della sua
natura e della sua efficacia, della sua validità e della sua
nullità. Questo approccio ha approfondito le logiche del vincolo
oggettivo e quelle della coscienza soggettiva, collaborando non solo
alla costruzione della cultura morale e canonica della chiesa, ma
generando anche una intera cultura europea dei diritti del soggetto e
del primato del “foro interno”.
Potremmo quasi
dire, con una piccola ma preziosa esagerazione, che il primo filone,
caldo e analogico, ha potuto, negli ultimi decenni, giungere
facilmente a fenomeni di surriscaldamento, fino alla fusione
mistica. Mentre il secondo indirizzo, più freddo e analitico,
ha condotto, non di rado, a forme di vero e proprio surgelamento,
con annessa paralisi, coazione a ripetere e gravi incomunicabilità.
In particolare
dobbiamo osservare come, negli ultimi tempi, si sia venuta a creare
una paradossale situazione. E’ capitato, infatti, che una sorta di
“santa alleanza” tra il primo e il secondo fronte della
riflessione abbia generato un “sapere sul matrimonio” che, nello
stesso tempo, si è presentato come troppo caldo e troppo freddo,
finendo per risultare anche troppo tiepido. In altri termini, con
esso si propone, non senza ragioni, una forte sottolineatura della
“mistica nuziale” interna alla complessiva rivelazione cristiana,
per poi trarne, però – e spesso surrettiziamente - dirette o
disinvolte conseguenze sul piano strettamente giuridico e
disciplinare. Come se una lettura “nuziale” della realtà
rivelata potesse pretendere, immediatamente, di far sorgere
conseguenze normative univoche e assolutamente invariabili. Come se
un massimalismo della mistica si sposasse così facilmente con un
massimalismo del diritto.
Qui ci troviamo di
fronte ad un vero “difetto di tradizione”. Proprio queste
accelerazioni - queste esagerate riscaldature mistiche e queste
troppo rapide infreddature giuridiche - poggiano su una
incomprensione grave dell’oggetto/soggetto della tradizione stessa.
E’ il matrimonio come tale che, in questo passaggio, rischia di
risultare incompreso, o per eccesso di idealizzazione, o per eccesso
di amministrazione. Le parole con cui ne parliamo e le categorie con
cui lo pensiamo e lo “sentiamo” non ne rispettano la logica
delicata e la trama complessa. E questa tendenza non fa bene alla
tradizione, poiché è incapace di rilanciarla e di rinnovarne il
linguaggio e lo stile.
Che cosa ci dice,
infatti, la lunga tradizione antica, medioevale e primo-moderna? Che
il matrimonio, proprio in quanto sacramento, non è soltanto una
“ricostruzione” o una “trasfigurazione” dell’antropologia a
livello teologico, ma è una piena assunzione sia del livello
naturale, sia del livello istituzionale sul livello sacramentale.
Ogni “elevazione”, di per sé, presuppone peso e fatica. Sono
proprio le differenze tra questi tre livelli (naturale, istituzionale
e sacramentale) ad aver permesso di leggere questo sacramento nuziale
come “ultimo” e come “primo” rispetto a tutti gli altri. Dal
punto di vista del “segno” è stato facile riconoscerlo come
primo, ma dal punto di vista della causa è stato altrettanto facile
retrocederlo all’“ultimo posto”. E può essere riconosciuto
come primo solo se da esso non si rimuove il fardello umano e la
struttura complessa.
Credo che sia
stata proprio questa grande complessità di livelli, di cui il
matrimonio ha strutturalmente bisogno, a farne il sacramento più
grande, ma anche il più piccolo. Grande nel significare come nessun
altro la unione tra Cristo e Chiesa, ma piccolo nella sua concreta e
fallibile possibilità di realizzarla. Questa è la differenza
strutturale che il surriscaldamento mistico e il congelamento
giuridico – con argomentazioni opposte, ma ora convergenti -
rischiano di rimuovere pericolosamente. Tali logiche riduttive – ma
riduttive, si badi, per eccesso - dimenticano, quasi
inevitabilmente, la differenza che rimane tra approccio mistico e
rapporto operativo rispetto al matrimonio. Se le analogie, belle ed
eleganti, diventano principi di determinazione della coscienza
altrui, le mistiche si trasformano facilmente in forme di
oscurantismo o di negazione dell’altro e del suo diritto.
Viceversa, se le logiche dei diritti e dei doveri non riescono più
nemmeno a nominare legami degni di questo nome, allora tutto il
sistema delle garanzie del soggetto – oggi così accuratamente
sviluppata - si trasforma nella quasi certezza della
inaccessibilità, per nessun uomo e per nessuna donna, di una
autentica sfera della comunione di vita.
Ecco allora,
ricondotto al suo punto geometrale, l’imbarazzo che ci troviamo a
vivere in questi tempi, comunque opportuni, di avviamento al cammino
Sinodale: la pretesa di far valere i principi generali di relazioni
teologiche come immediate ed evidenti soluzioni antropologiche o,
viceversa, la pretesa, altrettanto rischiosa, che l’umano
contemperamento dei diritti, dei doveri e degli interessi possa
diventare, come per miracolo, verità rivelata e disegno del Padre.
Una domanda si
impone, radicalmente e pudicamente: è più giusto custodire l’unità
dell’amore coniugale in una sorta di cassaforte denominata
indissolubilità, di cui però a tutti sia nota la combinazione
capace di renderla inconsistente; oppure non sarebbe meglio affidare
la comunione di vita della coppia ad un tabernacolo trasparente,
capace di accogliere anche la storia e le crisi dei soggetti che lo
abitano? L’irrigidimento su una nozione medioevale di
“indissolubilità” è un modo di assicurare alla Chiesa una
autentica fedeltà al “depositum fidei”, oppure soltanto uno
schermo, per procurarle la rassicurante apparenza di una tale
continuità?
Come ha scritto
una volta K. Barth, “la via
regia della semplicità divina e la via
della più inaudita illusione corrono parallele nella storia della
teologia, in tutti i tempi e in tutti gli sviluppi, separate soltanto
dallo spessore di un capello”.
Sperare che la misericordia di Dio sia già tutta contenuta
nella dottrina e nella disciplina che abbiamo saputo costruire negli
ultimi 800 anni intorno al matrimonio rischia di essere una
presunzione che, facilmente, può capovolgersi in disperazione.
Coltivare la speranza significa invece tenersi distanti da questi due
eccessi: non presumere di avere già risolto teoricamente un problema
che è obiettivamente nuovo e non pensare che il nuovo problema non
possa trovare risposta sulla base di una dottrina capace di essere
tradotta, fedelmente e creativamente.
Il matrimonio “non
si può sciogliere”: la dottrina della indissolubilità è la forma
classica con cui questa parola di Gesù è stata tradotta e
tramandata. Ma le conseguenze disciplinari di questa forma di
traduzione, e la sua stessa adeguatezza alla parola di Gesù, non
sono affatto dati irreformabili. In questo spazio realmente aperto
alla sollecitudine ecclesiale il prossimo Sinodo potrà muoversi con
audace prudenza, e con giustificata lungimiranza. Al servizio di una
ecclesia che voglia essere, davvero, ante et retro oculata.
E' una riflessione veramente bella! Ricca di spunti di riflessione, di speranza, di prospettive nuove...solo un laico sposato può scrivere simili considerazioni! Grazie!
RispondiEliminaBeh, l'abbiamo capito da mo' che Lei è contrario all'indissolubilità del Matrimonio cristiano, anche se farcisce il concetto con molti giri di belle parole....Ma cosa vuol dire: "eccesso di idealizzazione" del Matrimonio? Sono uno scemo a idealizzare il Matrimonio cristiano? A credere che è questo il disegno di Dio sull'uomo? Ma non si può correggere o "aggiornare" il Vangelo come si vuole.....Ma perché non si parla un po' di più della bellezza del disegno di Dio, portato da Gesù, sul Matrimonio, sulla famiglia, sull'uomo in definitiva? E la "porta stretta"? L'abbiamo allargata coi bulldozer? E il Magistero di San Giovanni Paolo II l'abbiamo buttato nel cesso? Quante famiglie cristiane si sono formate al suo insegnamento, aperte alla vita e alla fedeltà!
RispondiElimina