(Andrea Grillo) Configurando un modello di tradizione
ecclesiale piuttosto lineare, il card. Gerhard Mueller ha di recente
affermato: «Ci sono tanti mezzi, ma c’è un solo mediatore, che è
Gesù Cristo, e il suo Vangelo. Quindi la Parola di Dio non può mai
essere ignorata in nessun modo, e non può essere sottoposta a
compromessi in nessuno dei suoi passaggi. Deve essere accettata
pienamente. La Chiesa, né prima né dopo né durante il Sinodo può
cambiare ciò che viene dall’insegnamento di Cristo. Per quello che
riguarda il matrimonio sono prioritarie le parole: “Ciò che Dio ha
unito, l’uomo non divida”»(Vatican Insider, 3.11.2014).
Di fatto, noi abbiamo ricevuto la
Parola di Dio mediata dalla dottrina e dalla disciplina medievale del
matrimonio. Tale disciplina si è istituita mediante il ricorso a
categorie che non fanno parte della cultura cristiana, in senso
stretto, ma che sono state tratte dalla tradizione metafisica greca,
dal pensiero giuridico romano, e in parte da quello barbarico. In
tale assetto il modello di concezione del matrimonio e della sua
indissolubilità è stato modellato su un complesso rapporto tra la
“oggettività del vincolo” e la soggettività delle condizioni
richieste per un “valido” consenso e una “reale”
consumazione. Queste categorie, che hanno svolto in modo assai
efficace una funzione di mediazione per quasi un millennio, sono
entrate in crisi con il XIX secolo.
La crisi, tuttavia, non è della Parola
di Dio, ma della sua trascrizione/traduzione medioevale. Ciò che il
mondo tardo-moderno ha messo in discussione non è anzitutto la unità
della famiglia, ma il modo medioevale di pensare questa unità.
Il pensiero medioevale ha realizzato,
in questo campo, due autentici capolavori: da un lato ha scolpito
finemente il monumento all’autorità dell’amore. Un grande
vincolo oggettivo, forte e insieme delicato, che struttura la vita
dei soggetti e delle comunità, che assicura la continuità delle
generazioni e la educazione dei giovani. Accanto a questo grande
risultato, ha compiuto il non meno importante lavoro di cesello sul
soggetto, sulla sua volontà, sulla sua libertà, sul suo corpo e
sulla sua anima.
Tutto questo è diventato, dal XII
secolo in poi, il duplice versante, oggettivo e soggettivo, del
matrimonio cristiano. Certo, già questa epoca conosceva la
alternativa rischiosa che questa comprensione poteva rivelare: come
primo e come ultimo dei sacramenti, il matrimonio aveva in sé, non
troppo nascoste, le sue belle tensioni.
Ma tutto questo poteva essere gestito,
appunto, con una sapiente equilibratura del monumento oggettivo del
vincolo con la finezza delle condizioni soggettive del consenso e
della consumazione.
Questa dottrina giuridica dava parola e
forma alla tradizione teologica, offrendole anche una “via
processuale” per venire incontro alle – rare – occasioni di
“matrimonio fallito”. Venne così elaborato, in quel contesto e
con quelle categorie di pensiero, una procedura per poter
“dichiarare”, a certe condizioni, una condizione di reversibilità
dei soggetti rispetto al loro vincolo. Non perché fossero
“sciolti dal vincolo oggettivo”, ma perché il vincolo oggettivo
poteva essere riconosciuto come mancante di condizioni soggettive
e quindi inesistente.
Si noti: la soluzione non era offerta
se non con il riscontro di una carenza di elementi soggettivi al
costituirsi del vincolo stesso. Se il vincolo si era validamente
costituito e la consumazione era avvenuta, il vincolo doveva essere
ritenuto oggettivo, sottratto ad ogni storia del soggetto.
Se invece consenso o consumazione
risultavano “viziati” da qualche mancanza, allora si doveva
costatare che il vincolo non vi era mai stato.
Fisiologia e patologia del vincolo
avevano, tuttavia, in questa trascrizione medioevale, un elemento in
comune: non ammettevano alcuna “storia del vincolo”.
Questo è tipicamente legato al metodo di pensiero e di
argomentazione dell’età medioevale. E tuttavia tale modello
medioevale entra in crisi quando, con la tarda modernità, si
realizza un mondo che pensa il soggetto con i criteri della
coscienza e della storia. Con tale crisi, lo ripeto, non è la
indissolubilità ad entrare in difficoltà, ma il suo modo di essere
compresa e trascritta secondo categorie medioevali.
A riprova di questo limite
“categoriale” vorrei soffermarmi su due aspetti della questione,
così come si presentano nel mondo tardo-moderno:
- da un lato muta il modo di comprendere il rapporto tra “comunione” e “libertà”;
- dall’altro si manifesta una sorta di “degenerazione” del rimedio procedurale di costatazione della nullità del vincolo.
- Il modello medioevale di comprensione del matrimonio opera un passaggio troppo rapido e disinvolto tra il soggetto libero e relativamente autonomo e l’oggetto autorevole, che sovraintende alla vita dei soggetti. La Parola di Dio, in effetti, non definisce in modo dettagliato che cosa dobbiamo intendere con “ciò che Dio ha unito”, rispetto a ciò che “l’uomo non deve separare”. Atto divino e atto umano trovano, di volta in volta, una raffigurazione e una configurazione diversa. Ciò che cambia, con la tarda modernità, è precisamente la “non esteriorità” tra autorità e libertà. Comunione e libertà di coscienza sono diventate realtà reciproche, in cui la autorità non ha più, almeno immediatamente, alcun diritto acquisito. E dove la comunione, se non passa per coscienze libere, appare sospetta e imposta e perde, per così dire, la propria autorevolezza.
- Per questo l’equilibrio tra autorità e libertà non può più essere pensato in analogia con un “contratto”, ma piuttosto sulla falsariga di una alleanza o di un patto: il mutamento non è soltanto un passaggio dal “diritto” alla “teologia”, ma anche tra diverse configurazioni giuridiche del matrimonio stesso. Ciò ha, come conseguenza, un grande paradosso: proprio se lasciamo in uso le “categorie medioevali” che trascrivono la parola di Dio in questi termini non più adeguati, generiamo continue contraddizioni tra sistema giuridico e realtà matrimoniale. Così, se cerchiamo di salvaguardare a tutti i costi la “oggettività” del matrimonio con le categorie medievali, finiamo per favorire, di quelle stesse categorie medievali, solo il versante soggettivo, sottoponendo la realtà matrimoniale oggettiva alla carneficina impietosa delle “cause soggettive di nullità”, che inevitabilmente si moltiplicano e svuotano di consistenza ogni oggettività. Sradicata dal suo ambiente originario, la concettualità medioevale introduce continue forzature nella realtà e finisce anche con il generare “mostri”. Si noti: questo non è un effetto delle categorie in quanto tali, ma del loro utilizzo decontestualizzato, in un clima e in una cultura che pensa l’uomo, le relazioni, la libertà e l’autorità in modo profondamente diverso.
Come il medioevo scolastico e giuridico
ha trascritto la parola di Dio e la sapienza ecclesiale nelle
categorie del diritto e della metafisica del suo tempo, mettendo in
rapporto tradizione greca, romana e barbarica, come finissime
mediazioni, così oggi la tarda modernità deve sapere trascrivere il
senso di questi capolavori scolastici in un nuovo linguaggio.
Il linguaggio della libertà di
coscienza, della storia del soggetto e dei suoi legami e
della trasformazione della intimità possono diventare, oggi e
domani, nuovi capolavori di custodia e di trasmissione della Parola
di Dio sul matrimonio.
Perché questo possa accadere, è
necessario superare la rigida e forzata contrapposizione tra
oggettività sacramentale e soggettività del consenso e della
consumazione. Credo che solo così resteremo capaci di servire la
Parola di Dio “propter homines”.
Da un lato dunque, abbiamo veramente
bisogno di ritornare al Vangelo e alla Parola di Dio, prima che alla
dottrina ecclesiale. Ma dall’altro abbiamo bisogno urgente di una
migliore formulazione dottrinale, per onorare veramente la Parola di
Dio nelle categorie culturali ad essa più adeguate. Le due cose non
sono in contraddizione, anzi una cosa richiede, necessariamente,
anche l’altra. Per questo alle questioni sollevate dal Sinodo non
ci sono soluzioni semplici, né in un senso né nell’altro.
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