di Walter card. Kasper*
* Riprendiamo dal sito http://www.eancheilpaparema.it/ (espressione del Cenacolo degli amici di papa Francesco) la traduzione italiana del testo che il card. Kasper ha pubblicato originariamente sulla rivista dei gesuiti tedeschi Stimmen der Zeit (2015) 7, 435-445.
I. Un problema spinoso e complesso
La questione
dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti non è un problema nuovo
e non è un problema tedesco. La discussione attorno a tale questione si
sviluppa da anni a livello internazionale.[1] Papa
Giovanni Paolo II si è pronunciato in proposito nell’esortazione apostolica Familiaris Consortio (FC) (1982) (n. 84)
a favore della prassi ecclesiale vigente. Nell’esortazione Reconciliatio et paenitentia (1984) (n. 34) ha ribadito
espressamente questa posizione. Essa è entrata nel Catechismo della Chiesa
Cattolica (1993) (n. 1650) e nella Lettera della Congregazione per la dottrina
della fede del 1994.[2] Papa
Benedetto l’ha confermata nella sua esortazione apostolica Sacramentum caritatis (SC) del 2007 (n. 29).
Papa Giovanni Paolo II
ha parlato di una questione difficile e quasi insolubile, papa Benedetto di un
problema difficile e spinoso. Non è quindi sorprendente che la discussione
sulla questione da allora non si sia placata. Essa non riguarda solo i
cristiani che ne sono toccati immediatamente, ma anche molti cristiani
praticanti e impegnati che sono sposati da cinquant’anni o più, non hanno mai
pensato al divorzio, ma sperimentano ora dolorosamente il problema nei loro
figli e nipoti. I loro figli, a loro volta, nella maggior parte dei casi solo
con difficoltà riescono a trovare la via che li conduce ai sacramenti, se i
loro genitori non possono dare loro l’esempio. Non c’è quasi nessuna famiglia
che non sia toccata da questi problemi. È dunque comprensibile che il problema
sia avvertito come scottante da molti pastori e confessori, teologi e vescovi.
Come ci si poteva
attendere, la questione si è accesa di nuovo ed è stata oggetto di controversie
alla vigilia e nel corso del Sinodo straordinario dei Vescovi del 2014.[3] Il
Sinodo ordinario del 2015 deve portare a termine la discussione delle questioni
e presentarle al papa perché prenda una decisione. Nelle considerazioni
seguenti cerco soltanto di chiarire e di approfondire la problematica, per
quanto mi è possibile.
II. La parola di Gesù – vincolante e sfida sempre nuova
Fondamentale è la
parola di Gesù che l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto. Questa parola
si trova in tutti e tre i vangeli sinottici (Mt 5,32; 19, 9; Mc 10,9; Lc 16,18)
ed è testimoniata anche dall’apostolo Paolo (1Cor 7,10s).[4] Non
può esservi dubbio ragionevole che questa parola nella sua sostanza risale a
Gesù. Nella sua inaudita radicalità questa parola non fa difficoltà solo oggi.
Già i primi discepoli sono stati scioccati e per il mondo ellenistico-romano di
allora era assolutamente una provocazione. Allora come oggi non possiamo
indebolire la parola di Gesù attraverso l’adattamento alla situazione.
Con questa parola, che
si rifà a Deut 24,1, Gesù ha respinto la casistica giudaica e in tal modo ha
rigettato anche qualsiasi altra spiegazione casuistica o eccezione alla volontà
originaria di Dio. La parola di Gesù non è quindi una norma giuridica, ma un
principio fondamentale che la chiesa, con la potestà che le è affidata di legare
e sciogliere (Mt 16,19; 18,18; Gv 20,23), deve far valere nelle situazioni
culturali che cambiano.
La parola di Gesù non
deve perciò essere spiegata in modo fondamentalistico. Bisogna cogliere tanto
il limite quanto l’ampiezza della parola di Gesù, comprenderla nell’insieme del
messaggio di Gesù e rimanere fedeli alla parola di Gesù senza dilatarla oltre
misura.[5]
Questa spiegazione autorevole la troviamo già in epoca neotestamentaria: nelle
ben note clausole sull’adulterio per la comunità giudaica di Matteo (5, 32; 19,9),
e poi di nuovo in Paolo che in un contesto etnico-cristiano, decide con
autorità apostolica per la libertà cristiana che deve valere nel matrimonio con
un non credente, il quale non voglia vivere in maniera conveniente con il
coniuge cristiano (1Cor 7,12-16). Su questa base si sono sviluppati più tardi
il privilegium paulinum e il privilegium petrinum, così come la
possibilità di sciogliere, in virtù della potestà di legare e sciogliere, un
matrimonio sacramentale concluso validamente, ma non consumato.
In questo contesto si può
comprendere la prassi pastorale flessibile di alcune chiese locali nella chiesa
delle origini. L’interpretazione dei testi relativi è controversa tra gli
specialisti.[6] Su nessuna di queste
ipotesi è possibile costruire una soluzione ecclesiale oggi. È tuttavia
interessante il fatto che ai Padri di Trento il problema fosse noto. Essi hanno
perciò insegnato contro Lutero che la chiesa non sbaglia quando non riconosce
un secondo matrimonio (DS 1807), ma intenzionalmente non hanno condannato la diversa
prassi ortodossa[7] In tal modo essi hanno
insegnato l’indissolubilità del matrimonio concluso validamente (DS 1797s.;
cfr. 794; 3710s), ma non l’hanno definita formalmente.[8] Essa
è però dottrina di fede vincolante, che stimola la riflessione ed è sempre una
nuova sfida.
III. Il matrimonio – un segno frammentario dell’alleanza
Il Vaticano II ha
raccolto la sfida. Ha superato la comprensione del matrimonio come contratto,
sviluppata in linea con il diritto romano e ha compreso il matrimonio in modo analogo
a quanto già aveva fatto Tommaso d'Aquino[9] con la teologia biblica
dell’alleanza come intima comunione di vita e di amore, in cui i coniugi si
donano e si ricevono reciprocamente (GS 47). Con questa complessiva
comprensione personale il matrimonio, richiamandosi a Ef 5,25, viene
interpretato come immagine sacramentale della relazione d’alleanza tra Cristo e
la chiesa. Di conseguenza la relazione tra l’uomo e la donna deve seguire il
modello della relazione tra Cristo e la chiesa. Questa dottrina del matrimonio
fondata nell’idea biblica di alleanza è diventata il criterio per
l’insegnamento ecclesiale e la teologia recente. Da essa risulta una
giustificazione più profonda dell’indissolubilità del matrimonio. Come il patto
stabilito da Dio in Gesù Cristo con la chiesa è definitivo e irrevocabile, così
è anche il patto coniugale in quanto simbolo reale di questa alleanza.[10]
È una concezione
grandiosa e convincente. Non deve tuttavia portare a una idealizzazione
estranea alla vita. Nella lettera agli Efesini si dice che Cristo ha amato la
chiesa, si è donato per lei e l’ha resa pura e santa nell’acqua e mediante la
parola, così che essa gli stia di fronte gloriosa, senza macchia né ruga, santa
e immacolata (5,24-27). Questa non è la descrizione di una situazione, ma
espressione di una promessa escatologica, verso la quale la chiesa è sempre in
cammino. Nel suo pellegrinaggio terreno infatti la chiesa può realizzare ciò
che essa è, cioè la chiesa santa, solo in modo frammentario. Come chiesa santa
è anche la chiesa dei peccatori, che talvolta si presenta come prostituta
infedele e che sempre deve percorrere la via della conversione, del
rinnovamento e della riforma (LG 8; UR 4).
Questo vale anche per
il matrimonio cristiano. Esso è un grande mistero (mysterion) in relazione a Cristo e alla chiesa (Ef 5,32). Ma non può
mai realizzare nella vita questo mistero in modo pieno, ma sempre solo in forma
frammentaria. In questo senso è sotto molti aspetti un segno frammentario
dell’alleanza. I coniugi rimangono in cammino e sono sotto la legge della
gradualità (FC 9; 34). Hanno sempre bisogno della conversione e della
riconciliazione e sono sempre di nuovo rinviati al Dio ricco di misericordia
(Ef 2,4) (FC 38).
Il dramma può giungere
fino al punto che anche i cristiani possono fallire nel loro matrimonio. Questo
fallimento è sempre una catastrofe umana, in cui un progetto di vita con tutte
le sue speranze va incontro alla delusione e si infrange. Un tale fallimento fa
parte anche della teologia biblica dell’alleanza. Nel modo più drammatico
questo si vede nel profeta Osea. In primo luogo egli constata: Israele è
diventato una prostituta; Dio ha definitivamente rotto il patto (Os 1,9; 2,4-15).
Ma la giusta ira di Dio lascia il posto alla misericordia. Egli lascia al suo
popolo un nuovo inizio (Os 11,8s; cfr. 2,16-25). Di fronte al messaggio di Gesù
il popolo si rifiuta di nuovo nella sua totalità. La critica di Gesù a questa
durezza di cuore è chiara. Ma in seguito Gesù fonda, come nostro
rappresentante, con la sua croce e la sua risurrezione la nuova alleanza. Egli
dona il cuore nuovo promesso dai profeti (Ez 36,6s.; cfr. Ger 31,33; Sal 51,12).
La durezza di cuore perdura tuttavia nella peccaminosità dei cristiani. Ma Dio
rimane fedele, anche quando noi siamo infedeli. La sua misericordia è senza
limiti.
Una teologia realistica
del matrimonio deve considerare questo fallimento così come la possibilità del
perdono.[11] Anche nel fallimento
umano perdura la promessa della fedeltà e della misericordia di Dio. In questo
senso la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio diviene di nuovo attuale.
Essa non è un semplice ideale. Il sì di Dio perdura anche quando il sì umano si
indebolisce o addirittura si infrange. Esso appartiene in modo permanente alla
storia della libertà dei coniugi. Il patto coniugale stabilito da Dio stesso
non si infrange anche se l’amore umano si indebolisce o si spegne del tutto. E
tuttavia, anche in situazioni di fallimento umano nel matrimonio, la situazione
non è mai senza prospettiva e senza speranza. Anche in situazioni nelle quali
noi non vediamo alcuna via d’uscita, Dio può aprire una via nuova. La
misericordia di Dio è affidabile, se solo noi ci affidiamo ad essa.[12]
Una tale teologia
realistica dell’alleanza, che per così dire resiste alla crisi, pone la chiesa
di fronte alla questione: come può essa che si comprende come sacramento della
misericordia di Dio, accompagnare su un nuovo cammino e dare nuova speranza a
persone che nel loro matrimonio hanno dolorosamente fallito?
IV. La comunione spirituale – una via d’uscita?
Riguardo alla
situazione di un matrimonio fallito, anche di divorziati risposati, la chiesa non
si trova davanti a un nulla pastorale. I documenti ecclesiali recenti chiedono
con forza di accostarsi alle persone che si trovano in tali situazioni dolorose
e di invitarle alla partecipazione alla vita della chiesa (FC 83s; SC 29).
Spesso si cerca di aprire loro un cammino con Cristo, anzi in Cristo,
attraverso l’idea di comunione spirituale.[13] Con
il concetto della comunione spirituale si recupera un concetto tradizionale che
è purtroppo caduto in oblio. Nei documenti del Vaticano II e nel Catechismo
della Chiesa Cattolica purtroppo non viene menzionato; solo nei documenti
magisteriali più recenti viene ripreso di nuovo[14] e spesso
inteso come una via d’uscita che permette di compiere un passo in avanti nella
spinosa questione dei divorziati risposati.[15]
La tradizione della
comunione spirituale è fondata già nel grande discorso sul pane di vita del
capitolo 6 del Vangelo di Giovanni e poi nella sua interpretazione da parte di
Agostino.[16] Qui è il pane della vita
che è Gesù Cristo, del quale diventiamo partecipi nella fede. Nel medioevo la
dottrina della comunione spirituale si trova soprattutto in Tommaso d’Aquino.[17] Il
Concilio di Trento l’ha ripresa nell’insegnamento magisteriale (DS 1648; 1747).
Ne risulta un triplice significato: il desiderio della comunione sacramentale
(comunione in voto o cum desiderio), la recezione spirituale
della comunione sacramentale (manducatio
spiritualis) a differenza della recezione indegna o solo esteriore (manducatio mere sacramentalis) e infine
il rendere fruttuosa la comunione sacramentale facendola propria mediante atti
di pietà personale e in particolare nell’adorazione eucaristica.
Compresa correttamente
la comunione spirituale non è una forma alternativa rispetto alla comunione
sacramentale, ma è essenzialmente riferita alla comunione sacramentale.
L’applicazione alla situazione dei divorziati risposati appare perciò problematica.
Si raccomanda in questo modo una via alternativa alla comunione sacramentale?
Affatto. Ciò infatti sarebbe in contraddizione con l’autocomprensione
sacramentale della chiesa cattolica come sacramento visibile, cioè come segno e
strumento della grazia. A ciò si aggiunge che chi riceve la comunione
spirituale e nella fede è unito a Cristo non può trovarsi al tempo stesso nello
stato di peccato grave. Perché allora non può partecipare anche alla comunione
sacramentale? L’applicazione della comunione spirituale al problema dei
divorziati risposati, se si presuppone la comprensione tradizionale, porta in
un vicolo cieco.[18]
Questa via è invece
possibile se tacitamente si suppone un altro significato della comunione
spirituale. In questo nuovo significato la comunione spirituale non designa il
desiderio della comunione sacramentale che nasce dall’essere uniti a Cristo
nella fede, ma un desiderio nel quale il cristiano che vive in una situazione
irregolare prende coscienza della sua separazione da Cristo e diviene
consapevole che il suo desiderio, finché non modifica in modo fondamentale la
sua situazione, non può essere soddisfatto. Così compresa la comunione
spirituale può diventare un salutare impulso alla metanoia. Una tale nuova
comprensione è dunque oggettivamente possibile. Porta tuttavia inevitabilmente
con sé equivoci terminologici. La tradizione della chiesa ci può raccomandare
una via non esposta al rischio di equivoci.
V. Per un rinnovamento della via paenitentialis
La chiesa antica ha
sperimentato dolorosamente assai presto, già nel tempo della persecuzione, che
i cristiani possono fallire. Nel tempo della persecuzione molti cristiani si
sono dimostrati deboli e hanno rinnegato il loro battesimo. Ciò ha portato,
dopo il tempo della persecuzione, a una vivace discussione circa il modo in cui
la chiesa doveva comportarsi di fronte a tale situazione. Padri della chiesa in
Oriente e Occidente hanno difeso contro il rigorismo di Novaziano, che
proponeva l’ideale della chiesa come vergine pura, l’immagine della chiesa come
madre misericordiosa, le cui porte sono sempre aperte al peccatore disposto
alla conversione. Essi hanno sviluppato la penitenza canonica, compresa come
secondo battesimo non nell’acqua ma nelle lacrime del pentimento e della
penitenza. In questo modo la chiesa ha preso sul serio la sua autorità di
rimettere i peccati e il suo ministero della riconciliazione (2Cor 5,20).
Mediante il sacramento della riconciliazione essa ha concesso dopo il naufragio
del peccato non un secondo battesimo, ma per così dire una tavola di salvezza,
che salva dall’annegamento e rende possibile la sopravvivenza.[19]
Alcuni padri hanno
applicato un procedimento simile anche a cristiani che avevano rotto il loro
legame matrimoniale, vivevano in una seconda unione e mediante la via della
penitenza erano riconciliati e ammessi alla comunione.[20] La chiesa orientale ha proseguito su questa
via.[21] Nel
quadro di una liturgia penitenziale essa ha permesso un secondo e anche un
terzo matrimonio che – benché il segno della “incoronazione” sia il medesimo –
comprende non come sacramento, ma come benedizione. Inoltre essa ha recepito
dal diritto imperiale bizantino ulteriori motivi per il divorzio, che vanno al
di là delle clausole sulla fornicazione in Matteo. Determinante per questa
prassi è il principio dell’oikonomia,
che si ispira al modo misericordioso di agire di Dio nella storia della
salvezza. La chiesa occidentale non ha fatto propria questa prassi, ma ha
sviluppato un proprio diritto matrimoniale indipendente dal diritto imperiale
bizantino.
Si discute spesso se la
chiesa occidentale debba far propria la prassi ortodossa. Certamente essa può
imparare dalla comprensione ortodossa dell’oikonomia.
E tuttavia un ulteriore sviluppo del suo diritto matrimoniale dovrà avvenire
nella linea della propria tradizione giuridica che non conosce una forma
liturgica per il secondo matrimonio. L’oikonomia
orientale corrisponde invece sotto molti punti di vista nella tradizione
occidentale al principio dell’epikeia.[22] Nel
significato che le attribuisce Tommaso d’Aquino non è un diritto di eccezione,
né una cessazione della vigenza del diritto, ma è la giustizia più alta, che in
situazioni complesse, nelle quali una interpretazione letterale del diritto
sarebbe iniqua, fa valere il diritto in modo misericordioso “giustamente ed
equamente”.[23]
L’equità è stata
compresa nella canonistica medievale come iustitia
dulcore misericordiae temperata, cioè, traducendo liberamente: giustizia
che con la dolcezza della misericordia trova concreta applicazione con
oculatezza. In questo senso, in situazioni umanamente difficili, la chiesa
potrebbe fare uso misericordiosamente della potestà di legare e sciogliere. Si
tratta in questo caso non di eccezioni al diritto, ma di una equa e misericordiosa
applicazione del diritto.
Non si intende una
pseudomisericordia a buon mercato. Vale infatti, secondo quanto si legge in
1Cor 11, 28, il seguente principio: chi ostinatamente, cioè senza volontà di
conversione, persevera nel peccato grave non può ricevere l’assoluzione ed essere
ammesso alla comunione (CIC can 915). Questo principio è in sé evidente e
indiscutibile. La questione concreta di chi si trovi effettivamente in modo
ostinato in una tale situazione di perdizione non è però ancora decisa. Per
dare risposta a tale questione bisogna distinguere bene le diverse situazioni
ed esaminare ogni singola situazione con comprensione, discrezione e tatto (FC
4; 84). Non si può parlare di un’oggettiva situazione di peccato senza
considerare anche la situazione del peccatore nella sua singolare dignità
personale. Per questa ragione non può esserci alcuna soluzione generale del
problema, ma solo soluzioni singolari.
Ciò risulta dal
concetto di peccato grave. Il peccato grave non è costituito solo dalla materia gravis, l’azione contraria al
comandamento di Dio in una cosa importante; di esso fa parte anche il giudizio
della coscienza personale, l’assenso della volontà, nella quale per Tommaso l’intenzione
della volontà è assolutamente decisiva; infine è decisiva la considerazione
delle concrete circostanze.[24] Su
tutto ciò non si può decidere in termini generali. Perciò la sapienza della
chiesa conosce accanto al foro giuridico esterno il foro interno del sacramento
della penitenza.
Ci troviamo dunque di fronte
alla via paenitentialis. Non si
tratta di una nuova invenzione, ma si colloca, come di recente è stato
dimostrato, del tutto in linea con la comprensione del matrimonio di Tommaso
d'Aquino e della tradizione che a lui si richiama, in particolare del Concilio
di Trento[25]. Con la via paenitentialis non si intende
l’imposizione di pesanti pene, ma del processo, doloroso e tuttavia salutare,
della chiarificazione e del nuovo orientamento dopo la catastrofe della
separazione, che è accompagnata da un esperto confessore mediante un colloquio
che ascolta pazientemente e aiuta a fare chiarezza. Questo processo deve
condurre l’interessato a un giudizio onesto sulla propria situazione, in cui
anche il confessore matura un giudizio spirituale, per poter far uso della
potestà di legare e di sciogliere in modo adeguato alla situazione. Come in
altre questioni di grande importanza ciò accade,
secondo l’antica prassi della chiesa, sotto l’autorità del vescovo (cfr. Instrumentum laboris, n. 123).
Rimane per me incomprensibile
come si sia potuto obiettare a questa proposta che essa significa un perdono
senza conversione. Ciò sarebbe effettivamente insensato dal punto di vista
teologico. Ovviamente il sacramento della penitenza implica da parte del
penitente il pentimento e la volontà di vivere nella nuova situazione con tutte
le sue forze secondo il Vangelo. [26] Nell’assoluzione
non è giustificato il peccato, ma il peccatore che vuole convertirsi. La
comunione sacramentale, cui l’assoluzione apre di nuovo la strada, deve dare
alla persona che si trova in una difficile situazione la forza per perseverare
sul nuovo cammino. Proprio i cristiani in situazioni difficili hanno bisogno di
questa sorgente di forza che è per loro il pane della vita.
Un tale rinnovamento
della prassi penitenziale della chiesa, al di là dell’ambito dei divorziati
risposati, potrebbe avere l’effetto di un segnale per il necessario
rinnovamento della prassi penitenziale che nella chiesa di oggi è a terra in
modo deplorevole. Sarebbe profondamente farisaico ritenere che questo riguardi
solo i cristiani divorziati e risposati. In occasione del ricordo
dell’affissione delle tesi di Lutero, che cinquecento anni fa ha rappresentato
l’inizio della Riforma, i cristiani cattolici ed evangelici hanno tutte le
ragioni per lasciarsi dire dalla prima tesi di Lutero che tutta la vita di un
cristiano deve essere una penitenza.
VI. Ermeneutica della continuità ed eterna
novità del Vangelo
In conclusione la
questione: questo sviluppo della prassi penitenziale della chiesa sarebbe da
comprendere come una rottura con la dottrina e la prassi della chiesa oppure
non piuttosto nel senso dell’ermeneutica della continuità? Un’ermeneutica della
continuità rettamente compresa, nel senso in cui l’ha proposta papa Benedetto
nel noto discorso per gli auguri natalizi del 2005, infatti non esclude, ma implica
riforme pratiche e quindi un elemento di discontinuità. Essa è una ermeneutica
della riforma.[27]
La verità della
rivelazione non è un sistema rigido scolpito nella pietra e scritto su tavole
di pietra, ma è la lettera d’amore del Dio vivente, scritta nei cuori di carne
(2 Cor 3, 3). Secondo Tomaso d’Aquino il vangelo in ultima analisi e
primariamente è lo Spirito santo infuso nel cuore dei fedeli attraverso la fede
di Cristo.[28] Dio con il suo Spirito è sempre
in dialogo con la sua chiesa, la sposa del suo Figlio (DV 8), per introdurla
sempre di nuovo nella verità tutta intera (Gv 16, 13) e dischiudere il vangelo,
che è sempre lo stesso, nella sua eterna novità.[29]
La misericordia è
questa eterna novità. In essa risplende la sovranità di Dio, con cui egli è
fedele sempre di nuovo al suo essere, che è amore (1Gv 4, 8), e al suo patto.
La misericordia è la rivelazione della fedeltà e dell’identità di Dio con se
stesso e così al tempo stesso dimostrazione dell’identità cristiana.[30]
Perciò la misericordia non toglie la verità cristiana. Essa stessa è una verità
rivelata, che è strettamente legata con le fondamentali verità della fede,
l’incarnazione, la morte e risurrezione di Cristo, e senza di esse cadrebbe nel
nulla (cfr. Instrumentum laboris, n.
68). D’altra parte, tutte queste verità senza la dolcezza della misericordia si
trasformerebbero in un sistema rigido e freddo. La misericordia le fa
risplendere sempre di nuovo in modo sorprendente e conferisce sempre di nuovo
alla fede forza di irradiazione. Solo così la nuova evangelizzazione può
riuscire.
L’ammonimento a «rimanere
nella verità di Cristo» include l’altro a «rimanere nell’amore di Cristo» (Gv
15,9). Si tratta di fare la verità nella carità (Ef 4,15).
[1] La discussione è riassunta in K. Lehmann, Gegenwart des Glaubens, Mainz 1974, 274-294; 295-308; W. Kasper, Zur Theologie der christlichen Ehe, Mainz 1977, 55-83.
[2] Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della
comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati (14 settembre 1994). Cfr. Zur Seelsorge wiederverheiratet
Geschiedener. Dokumente, Kommentare und Studien der Glaubenskongregation. Con
una Introduzione di Joseph Kardinal Ratzinger/Benedikt XVI,
R. Voderholzer (ed.),Würzburg 2014.
[3] La mia relazione Das Evangelium von der Familie (Freiburg
i. Br. 2014) ha trattato il problema dei divorziati risposati solo brevemente
nell’ultimo capitolo. In questo modo si voleva dare uno stimolo alla discussione,
non anticipare la soluzione. Queste considerazioni hanno incontrato assenso e
critica. Di seguito discuto le critiche non direttamente, ma solo
indirettamente, chiarendo la mia posizione rispetto ai fraintendimenti che ha
incontrato, sviluppando e approfondendo le mie riflessioni.
[4] La discussione esegetica sulla
parola di Gesù è ormai difficile da dominare. Sulla discussione antica cfr. la
nota 1. Un panorama della discussione recente in U. Luz, Das Evangelium nach Matthäus, EKK vol.
I/1, 20055, 346-369 e vol. I/3, 1997, 88-103. Da allora sono apparsi
innumerevoli studi. In questo contesto ci dobbiamo limitare a rinviare a pochi
contributi: Zwischen Jesu Wort und Norm. Kirchliches Handeln angesichts von Scheidung und
Wiederheirat, M. Graulich-M. Seidnader
(edd.), (QD 264), Freiburg i. Br. 2014 con i
contributi di D. Markl e Th. Söding; G.I. Gargano,
Il mistero delle nozze cristiane. Tentativo
di approfondimento biblico- teologico, in «Urbaniana University Journal» 67
(2014/3) 61-73.
[5] Joseph Ratzinger Gesammelte Schriften, vol. 4, 2014, 617; cfr. 589-591; 633s. Questo vale anche se J. Ratzinger
/Benedetto XVI alla fine giunge a una diversa conclusione pratica.
[6]
Cfr. la letteratura nella nota 1; in particolare H. Crouzel,
L’Église primitive face au
divorce: Du premier au cinquième siècle, Paris 1971; diversamente G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella
Chiesa primitiva, Bologna 1977 (20133); Idem, Divorziati risposati. Un nuovo inizio è
possibile?, Assisi 20142. Non faccio mia in alcun modo la
posizione di G. Cereti in termini generali. Ma non posso concordare con
presentazioni apologetiche che depotenziano testi che contraddicono la prassi
attuale, introducendo in essi con un corto circuito teorie decisamente
posteriori.
[7]
K. Ganzer lo ha messo di nuovo in evidenza
sulla base della storia del testo del canone 7 del decreto sul sacramento del
matrimonio (DS 1807): Absolute
Unauflöslichkeit der Ehe auf dem Konzil von Trient? Zur Frage einer neuen
Eheschließung bei Ehebruch auf dem Konzil, München-Würzburg 2015. In questo studio si è riferito alle ricerche di L. Bressan,
Il canone tridentino sul divorzio per
l’adulterio e l’interpretazione degli autori (Analecta Gregoriana 1973) e di H. Jedin, Geschichte
des Konzils von Trient, Freiburg i. Br. 1951-1975, vol. III, 141-161; vol.
IV/2, 96-121, in particolare 108 ss.
[8]
Diekamp-Jüssen e Pohle-Gummersbach parlano di una sententia fidei proxima, L. Ott solo di una sententia certa.
[9] Cfr. lo studio dettagliato di A. Oliva, Essence et
finalité du mariage selon Thomas d’Aquin. Pour un soin pastoral renouvelé,
in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques» 98 (2014) 601-668.
[10]
FC 12s.; SC 27 e altri. Per la recezione teologica mi limito a rimandare
a due autori di diverso orientamento: E. Schockenhoff,
Chancen der Versöhnung. Die Kirche und die wiederverheiratet geschiedenen,
Freiburg i. Br.2011, 73-98; M. Ouellet,
Die Familie Kirche im Kleinen. Eine
trinitarische Anthropologie,
Einsiedeln 2013; Mistero e sacramento dell’amore. Teologia del matrimonio e
della famiglia per la nuova evangelizzazione, Siena, 2007 (Mystery and Sacrament of Love. A Theology of Marriage and the Family for New
Evangelization, 2015); Idem,
Ehe und Familie im Rahmen der
Sakramentalität. Herausforderungen und Perspektiven, in «Communio» 43
(2014) 413-428.
[11] E. Schockenhoff,
Chancen der Versöhnung, 99-125.
[12]
Cfr. in proposito le numerose affermazioni di papa Francesco, in
particolare nell’Esortazione apostolica Evangelii
gaudium (2013) e nella Bolla Misericordiae
Vultus (2015).
[13] J. Auer, Geistige Kommunion. Sinn und Praxis der
communio spiritualis und ihre Bedeutung für unsere Zeit, in «Geist und Leben» 24 (1951) 113-132; L. de Bazelaire, Communion
spirituelle, in Dictionnaire de Spiritualité 22 (1953)
1294-1301; H.R. Schlette, Kommunikation und Sakrament (QD 8),
Freiburg i. Br. 1959 (con molta letteratura precedente); R. Taft,
Receiving Communion. A Forgotten Symbol? in «Worship»
57 (1983). 412-418; B.D. de La Soujeole,
Communion sacramentelle et communion
spirituelle, in «Nova et Vetera» 86 (2011) 146-153; P.J. Keller.
Is
Spirituelle Communion for Everyone?,
in «Nova et Vetera» (ed. ingl.) 12 (2014) 631-655; G. Pani, La comunione spirituale, in «La Civiltà
cattolica» 166 (2015) 224-237. P.J. Cordes, Geistige
Kommunion befreit vom Staub der Jahrhunderte, Kißlegg 2014
[14]
Giovanni Paolo II, Enciclica Ecclesia de eucaristia (2003) (n.34); Benedetto XVI,
SC 55. Il Catechismo cattolico per gli adulti tedesco Das Glaubensbekenntnis der Kirche (1985) (p. 357), da questo punto
di vista, ha anticipato lo sviluppo.
[15]
Dapprima da parte della Congregazione per la Dottrina della fede (1994)
(nota 2) (Nr.7); Benedetto XVI durante il VII Incontro mondiale delle famiglie
a Milano, 1-3 giugno 2012, ha affermato, in riferimento ai divorziati
risposati: «Anche senza recezione “corporale” del Sacramento, possiamo essere
uniti spiritualmente con Cristo nel suo Corpo».
[16] R. Schnackenburg, Geistliche Kommunion und Neues Testament,
in «Geist und Leben» 23 (1952) 407-411; Augustinus, In Jo tract. 25, 11 s.
[17]
Tommaso d’Aquino, Summa theol. III q. 80 a 1 e 2.
[18] A proposito di questo vicolo
cieco, non ho criticato la comunione spirituale in quanto tale, ma la sua
equivoca applicazione al problema dei divorziati risposati. La pratica della
comunione spirituale in se stessa è senza dubbio spiritualmente fruttuosa e
necessita urgentemente di essere rinnovata in una nuova fase del movimento
liturgico.
[19]
Cfr. in proposito le note ricerche di B. Poschmann, K. Rahner, H. Vorgrimler e altri.
[20] Questa è la posizione di un padre
dell’importanza di Basilio di Cesarea. Cfr. in
proposito Joseph
Ratzinger Gesammelte Schriften, vol. 4, 600-606. Un’analoga
proposta recentemente: Th. Michelet, Sinodo sulla famiglia. La via dell’Ordo
Paenitentium, in «Nova et Vetera» 90 (2015).
[21]
B. Petrà, Divorziati risposati e seconde nozze nella chiesa. Una nuova soluzione,
Assisi 2012; Idem, Divorzio e seconde nozze nella tradizione greca. Un’altra via,
Assisi 2014.
[22] Tommaso d’Aquino, Summa theol. II/II, 120s.;
cfr. G. Virt, Epikie - Verantwortlicher Umgang mit Normen. Eine historisch-systematische Untersuchung, Mainz
1983; Idem, Moral Norms and the Forgotten Virtue of Epikeia in the Pastoral Care of
the
Divorced and Remarried, in «Journal of the Faculty of Theology University
of Malta» 63 (2013/1) 17-34.
[23] Sulla teoria dell’applicazione
delle norme canoniche cfr. W. Kasper, Barmherzigkeit. Grundbegriff
des Evangelium - Schlüssel christlichen Lebens, Freiburg i.
Br. 2012, 174-177; 238, n. 174.
[24]
Catechismo della Chiesa Cattolica,
nn. 18567-60; Tommaso d’Aquino, Summa theol. I/II, 19,5; 72,5.
[25] A
questo risultato giunge A. Oliva, Essence et
finalité du mariage selon Thomas d’Aquin, 650-663.
[26]
In
questo senso papa Giovanni Paolo II in FC 84 ha deciso che divorziati risposati
che sono disposti a una vita che non sia più in contraddizione con l’indissolubilità
del matrimonio, cioè vivono in piena continenza, possano ricevere il sacramento
della penitenza e dell’eucaristia. Sicuramente i cristiani che si decidono a
percorrere questa via e la mantengono danno un’eloquente testimonianza dell’unità
e dell’indissolubilità del matrimonio; la loro generosa testimonianza merita
grande rispetto e richiede un attento accompagnamento pastorale. D’altra parte,
la regola eccezionale di FC solleva questioni teologiche fondamentali. Secondo
Tommaso d’Aquino l’essenza del matrimonio consiste nella comunione spirituale;
l’unione sessuale è per lui secondaria (Summa
theol. III, 20,2; Suppl. 44,1).
Se si segue questa concezione, si pone la questione: è sensato, anzi non è
addirittura contraddittorio, tollerare tacitamente, in certo modo come
soluzione di emergenza (tavola di salvezza!), l’elemento essenziale del
matrimonio che trova espressione pubblica nel matrimonio civile e invece
elevare a criterio decisivo per l’ammissione o la non ammissione ai sacramenti
l’esclusione dell’elemento secondario che ne deriva? In altri termini: dal
punto di vista della teologia del sacramento in contraddizione con il segno
sacramentale si trova non l’unione sessuale che appartiene alla sfera intima,
ma il matrimonio civile, in quanto comunione di vita pubblicamente professata,
che con la regola eccezionale è quanto meno tollerato. Se però il matrimonio
civile in quanto tale viene di fatto almeno tollerato, si pone la domanda se la
questione relativa alla sfera intima e quindi al forum internum della continenza, senza verifica della concreta
situazione, possa diventare criterio decisivo per l’ammissione o la non
ammissione alla recezione dei sacramenti? Su questo punto deve iniziare l’ulteriore
discussione e chiedersi se la regola eccezionale di FC 84, a partire dalla sua
oggettiva logica teologica interna, non richieda una riflessione più avanzata.
Finalmente, in questa questione si tratta dell’unicità di ogni persona e della
distinzione tra foro esterno e interno, necessaria a motivo della dignità della
coscienza. L’attenzione a questa tradizionale distinzione sarebbe un passo
importante per giungere a una soluzione pastorale della questione.
[27] Discorso ai membri della Curia e
della Prelatura Romana per la presentazione degli auguri natalizi (22 dicembre
2005). Praticamente papa Benedetto ha in larga misura fatta propria la
posizione di J. H. Newman: An Essay on
the Development of Christian Doctrine, 1878.
[28]
Tommaso d’Aquino, Summa theol. I/II, 106, 1.
[29]
Sullo sviluppo dottrinale cfr. i Concili Vaticano I (DS 3020) e Vaticano
II (DV 8); sulla perenne novità del Vangelo cfr. papa Francesco, Evangelii gaudium (2013) 11.
[30] W. Kasper, Barmherzigkeit, 105; Idem, Das Evangelium von der Familie, 55s.
Non mi permetto di commentare il pensiero del card. Kasper: le sue parole parlano da sole.
RispondiEliminaVorrei solo presentare, attraverso questo blog, un grazie sincero a tutti quei Pastori che, come il card. Kasper, 'conservano' la Tradizione attraverso una grande e vera onestà spirituale prima ancora che intellettuale.
Unico rammarico, che nasce quasi come un retrogusto dopo aver letto questo articolo, sta nella consapevolezza che molti teologi parlano ancora di 'stato ontico' e di 'vincolo eterno' in senso sempre più metafisico e sempre meno cristiano e religioso.
Intanto però, grazie Cardinale!
Umberto