Da Familiaris consortio ad Amoris laetitia: un passo avanti nella continuità dell'attitudine pastorale. Il multiforme discernimento del capitolo VIII.
Introduzione. La varietà delle forme di
unione e la necessità del discernimento pastorale.
Il capitolo
VIII dell’Amoris laetitia è dedicato
al tema: Accompagnare, discernere e
integrare la fragilità. Esso è suddiviso nelle seguenti sezioni: due numeri
introduttivi senza titolo (nn. 291-292); La
gradualità della pastorale (nn. 293-295): Il discernimento delle situazioni dette “irregolari” (nn. 296-300);
Le circostanze attenuanti nel
discernimento pastorale (nn. 301-303); Le
norme e il discernimento (nn. 304-306); La
logica della misericordia pastorale (nn. 307-312).
Come già mostrano i vari titoli delle sezioni,
centrale in tutto il capitolo è l’attenzione al ‘discernimento’ delle
situazioni dette “irregolari”, fin
dall’inizio inquadrato in un preciso orizzonte: quello del lavoro della
Chiesa come “ospedale da campo” (AL, 291). Infatti, benché “la Chiesa sempre proponga la perfezione e
inviti a una risposta più piena a Dio”(Al,291) non può disinteressarsi “dei
suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito”(AL,291): deve
accompagnarli con attenzione e premura, cercandoli anche là dove l’oscurità e
lo smarrimento sembrano prevalere, distinguendo le varie forme di unione per “valorizzare”
tutto quel che è valorizzabile.
Di fatto, varie sono le forme di unione. Si va
dall’unione cristianamente piena (l’ “ideale”, ovvero “l’unione tra un uomo e una donna,
che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si
appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita,
consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come
Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società”: AL,292) alle
forme di unione in contraddizione con l’ideale, passando per forme che
realizzano l’ideale “in modo parziale e analogo”. La Chiesa ha il dovere morale
di accostarsi ad esse per “valorizzare gli elementi costruttivi in quelle
situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul
matrimonio”(AL,292). Deve imparare a
“discernere” i “semi del Verbo” anche nelle “situazioni imperfette”(cfr. AL,
76-77) e affrontarle con l’intento di trasformarle “in opportunità di
cammino”(AL,294).
E’ in riferimento a questo processo di valorizzazione
positiva che AL ricorda quanto FC,34 dice sulla legge di gradualità, ovvero
sulle tappe della crescita morale (FC,34 citato in AL,295: “l’essere umano
«conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita»”), che non
va confusa con la gradualità della legge. Le persone sono in cammino,
attraversano varie tappe cognitive ed esistenziali, valutano e decidono
moralmente (prudenzialmente) secondo quel che ad ogni momento comprendono e
sono in grado di attuare, cosa che può anche non coincidere pienamente “con le
esigenze oggettive della legge”(AL,295).
Questa attitudine di valorizzazione coincide con quel
che è chiamato al n.293 “il discernimento pastorale delle situazioni” che non
corrispondono alla realtà piena del matrimonio cristiano, un discernimento che
permetta di “entrare in dialogo pastorale” con le persone coinvolte. Per ben
due volte il n.293 invita al “discernimento pastorale”.
“Discernimento
del Pastore”, logica dell’integrazione, mancanza di ricette semplici
La valorizzazione delle varie situazioni non è una
semplice questione di cortesia o di buon cuore. Corrisponde a quella logica della
“misericordia e dell’integrazione” (AL,296) che è della Chiesa e del Signore
Gesù, ben diversa dall’altra logica che percorre la storia della Chiesa, cioè
la logica dell’emarginazione.
Il papa insiste sulla necessità che il “discernimento
del Pastore” cerchi di integrare nella comunità cristiana tutti coloro che sono
integrabili in qualche modo, senza cedere
a dinamiche emarginanti seppure “evitando ogni occasione di scandalo”(AL,299). La
strada da percorrere è chiara, come appare da quel che si dice tra n.296 e
n.297: “La strada della
Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la
misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]
297. Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare
ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale,
perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e
gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la
logica del Vangelo”.
Per questo, il discernimento deve essere molto
attento e saper distinguere bene le varie situazioni senza lasciarsi trascinare
da soluzioni semplicistiche e generalizzate: “I Padri sinodali hanno affermato che il
discernimento dei Pastori deve sempre farsi «distinguendo adeguatamente» (Relatio Synodi 2014,26), con uno sguardo
che discerna bene le situazioni (Cfr. Ibid.
45).Sappiamo che non esistono «semplici ricette» (Benedetto XVI, Discorso al VII Incontro Mondiale delle
Famiglie, Milano, 2 giugno 2012, risposta 5)”(AL,298).
Discernimento del pastore e discernimento
del fedele: “il discernimento personale e pastorale”.
L’Esortazione
non parla solo del discernimento del pastore, parla anche del discernimento
proprio della persona del fedele. Anzi, li pone in stretta connessione e li
ricorda unitariamente. AL, 298 rinvia così simultaneamente e unitariamente a queste
due modalità di discernimento. Quando osserva la diversità delle situazioni dei
divorziati risposati, sulla scia di FC,84, sottolinea la necessità di non
lasciarsi andare ad “affermazioni troppo rigide” e di “lasciare spazio a un
adeguato discernimento personale e pastorale”. Queste due modalità del
discernimento, “personale e pastorale”, sono ricordate anche all’inizio del
n.300, ove si dice esplicitamente che solo la via del discernimento va
percorsa: “Se si tiene
conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo
sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o
da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico,
applicabile a tutti i casi. E’ possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad
un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari”.
Un simile rinvio
unitario non deve però nascondere il fatto che discernimento pastorale e
discernimento personale hanno configurazioni diverse. Anzi, il chiarimento di
questa diversità è –io credo- assai importante per cogliere adeguatamente anche
quello che l’Esortazione concretamente
propone.
Il discernimento
‘pastorale’, come dice chiaramente l’aggettivo, è operato propriamente dai
soggetti dell’azione pastorale, innanzitutto vescovi e presbiteri, nei
confronti delle persone o situazioni che sono oggetto dell’azione pastorale:
esso mira a cogliere le peculiarità e le differenze delle varie situazioni, prendendo
in considerazione l’insieme delle circostanze –soggettive e oggettive-, mettendole
in rapporto con l’insegnamento della Chiesa e del vescovo (AL,300), mostrando
ai fedeli le vie di fedeltà e di crescita della vita cristiana dei fedeli nelle
situazioni considerate.
Il
discernimento ‘personale’ indica invece propriamente il discernimento esercitato
in prima persona dal soggetto morale -il
fedele stesso- allorché è posto dinanzi alla necessità di prendere una
decisione in ordine all’ agire in una particolare situazione; trattandosi di un
cristiano, si suppone che chi agisce cerchi di essere fedele alla volontà del
Signore quale si manifesta nella situazione stessa. Del resto, è per questo che
il fedele si rivolge al pastore.
E’ mediante questo
‘personale’ discernimento che il fedele perviene alla sua propria decisione di
coscienza in situazione, una decisione che può essere solo sua. Secondo la nostra
tradizione morale, infatti, la coscienza è la norma soggettiva ultima
dell’azione e nessuno può prenderne il posto neppure il pastore (anche nel
sacramento della penitenza). AL, 305 richiama opportunamente quanto dice la Commissione
Teologica Internazionale (In cerca di
un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009) sul fatto
che “la legge naturale non può […] essere presentata come un insieme già
costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è
una fonte di ispirazione oggettiva per il
suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione [mia
sottolineatura]”.
L’Esortazione richiama per altro formalmente
questa dottrina tradizionale al n.37: “[Noi] stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante
volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e
possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in
cui si rompono tutti gli schemi. Siamo
chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle
[sottolineatura mia]”.
Il luogo del “discernimento personale e
pastorale”: il foro interno.
L’Esortazione parla simultaneamente e
unitariamente di “discernimento personale e pastorale” perché il luogo al quale
pensa è quello nel quale il soggetto del discernimento pastorale (pastore) incontra
il soggetto (o soggetti) del discernimento personale (il fedele con la sua
coscienza) in ordine alla formazione del giudizio di coscienza in situazione. In
questo luogo vengono trattate le situazioni che nella prassi della Chiesa sono considerate materia propria del
cosiddetto foro interno. L’ambito del foro interno si distingue dal foro esterno
-che ha ordinariamente per oggetto il governo pubblico della Chiesa e tratta
quindi questioni di carattere pubblico - in quanto riguarda questioni che
coinvolgono primariamente la coscienza morale del fedele (dei fedeli). Il foro
interno ha due momenti: quello non sacramentale (colloquio pastorale), quello
sacramentale (sacramento della confessione)[1].
Il capitolo
VIII ha presenti ambedue i momenti del foro interno. E’ perciò utile fermarsi
sulle loro peculiarità nella tradizione morale.
Pastore e fedele nel foro interno non
sacramentale (colloquio pastorale).
In questo momento
del foro interno il pastore esercita una sorta di autorevole moral counseling in dialogo con il
fedele. Esso può esigere anche un tempo non breve e talvolta è svolto nel contesto
della direzione spirituale. In questo dialogo il pastore –se e in quanto richiesto- aiuta il fedele a valutare correttamente il
proprio comportamento passato e presente e le sue possibilità future, senza
tuttavia sostituirsi alla persona giacché opera in aiuto alla sua coscienza e
non al posto di essa.
In questa
relazione di aiuto morale (illuminazione / accompagnamento), il pastore prospetta
l’orizzonte morale della vita cristiana, aiuta la persona a cogliere quanto
dipende e quanto non dipende da lei, qual è l’ambito delle sue responsabilità e
delle sue possibilità concrete; può sostenerla e indirizzarla verso le risorse
spirituali necessarie per la ricerca sincera della volontà di Dio e per la
conformità ad essa.
Il pastore –nel
foro interno non sacramentale- non impone comportamenti né stabilisce quello
che la persona deve fare; aiuta la persona a cogliere la propria responsabilità
morale nelle concrete possibilità della sua situazione. La decisione che
scaturisce è appunto la norma che la coscienza del fedele in prima persona assume
per quella situazione, senza ovviamente pretese universali, e che può non
coincidere con la norma oggettivamente e astrattamente data dalla dottrina (si
colloca qui, ad esempio, la lunga
tradizione morale cattolica dell’epicheia).
AL, 300 si
riferisce a questo tipo di relazione pastore-fedele quando, riprendendo la Relatio finalis del Sinodo 2015, ricorda che il
pastore aiuta i fedeli “alla presa di coscienza della loro situazione dinanzi a
Dio” e concorre alla “formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la
possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi
che possono favorirla e farla crescere”. Anche AL,303 allude allo stesso
processo allorché scrive: “bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza
illuminata, formata e accompagnata dal discernimento serio e responsabile del
Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia”. Ancora, è probabilmente
allo stesso aiuto pastorale che si riferisce AL,304 quando, ricordando la dottrina di S.Tommaso
sulla indeterminazione normativa crescente quanto più si scende nel
particolare, afferma che tale dottrina deve essere presente nel “discernimento
pastorale” (del pastore) e che proprio per questo “ciò che fa parte di un
discernimento pratico davanti a una
situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma”, intesa come
norma generale.
E’ importante sottolineare che questo aiuto al
discernimento personale di tipo pratico da parte del pastore non deve essere
interpretato come un aiuto a ben applicare la norma alla situazione ma come un
aiuto perché la coscienza colga la
concreta possibilità del bene ovvero il
bene possibile in situazione. AL,308 riprendendo letteralmente Evangelii Gaudium, 44 sottolinea che la
“misericordia del Signore […] ci stimola a fare il bene possibile”. E il ‘bene
possibile’ non coincide sempre con la realizzazione più piena dell’ideale (cfr.
AL,303); anzi, talvolta anche illuminata “la coscienza può riconoscere non solo che una situazione non
risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche
riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta
generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale
che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla
complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale
oggettivo” (AL,303).
Il
‘bene possibile’ non è un bene impuro o indegno. Come osserva il papa in AL,308
citando EG,45: “Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che
non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una
Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre
che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento
obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di
sporcarsi con il fango della strada»”.
Nel contesto del Capitolo VIII e in particolare alla
luce del n.292 (che distingue tra realizzazione radicale dell’unione ideale
-matrimonio cristiano- e realizzazioni “in modo parziale e analogo”) quel che
abbiamo appena detto significa che la coscienza del fedele può considerare
‘bene possibile’ una di quelle “situazioni che non corrispondono ancora o non
più al suo [della Chiesa] insegnamento sul matrimonio”.
Il passaggio dal foro interno non
sacramentale a quello sacramentale. Varie possibilità, inclusa anche quella del
non passaggio
Quando il fedele passa per il colloquio o colloqui
pastorali è poi frequentemente portato a rivolgersi al foro interno
sacramentale (la confessione) .
Talvolta, il passaggio è spontaneo e quasi naturale: in forza dei
colloqui stessi il fedele coglie in coscienza la necessità della confessione in
ordine all’assoluzione e chiede al presbitero che lo ha accompagnato di
confessarlo.
Tale passaggio al sacramento tuttavia non è
necessario. Il fedele illuminato potrebbe giungere alla decisione che nel suo
caso non ci sia la necessità della confessione. Come si sa, per la dottrina
della Chiesa, la confessione è necessaria per i peccati gravi o mortali [2] e si
hanno peccati gravi solo quando chi agisce sa di fare un male grave (con consapevolezza morale e non
puramente giuridica) ed è libero di agire diversamente. E’ del tutto possibile
che una persona non abbia la adeguata consapevolezza morale e/o non abbia
libertà di agire diversamente e che pur facendo qualcosa oggettivamente
considerato grave non compia un peccato grave in senso morale e dunque non
abbia il dovere di confessarsi per accedere all’eucaristia. AL, 301 allude chiaramente a questa dottrina quando
dice che chi è in condizione irregolare non necessariamente “vive in stato di
peccato mortale” e parla degli elementi limitanti a vario titolo i soggetti
agenti: “I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della
norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà
nel comprendere «valori insiti nella norma morale» (FC,33) o si può trovare in
condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere
altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri
sinodali, «possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione» (Relatio finalis 2015)“. Lungo la
stessa linea si colloca AL, 295 quando appoggiandosi a FC,34 descrive con
accuratezza il peculiare esercizio prudenziale della libertà da parte di
soggetti che agiscono senza poter cogliere pienamente le “esigenze oggettive
della legge”, ovviamente senza colpa in causa.
In casi simili, di
non necessità del passaggio al sacramento per accedere all’eucaristia, la
confessione è semplicemente consigliata. Non è infrequente però che anche chi
non vede la stretta necessità della celebrazione sacramentale chieda
l’assoluzione e dunque celebri il sacramento.
Come talvolta non è necessario il ricorso alla
confessione, così non è necessario che ci si confessi con il sacerdote che ha
accompagnato. Potrebbe essere un altro confessore.
Accesso al foro
interno sacramentale senza passaggio da quello non sacramentale. Il
discernimento sacramentale.
Va osservato però che nell’attuale prassi la
maggioranza dei fedeli arriva direttamente al foro interno sacramentale senza
passare attraverso il foro interno non sacramentale.
Ciò significa che diventa più difficile l’aiuto da
parte del pastore alla coscienza del fedele, sia perché ordinariamente nel
confessionale il tempo non è sufficiente e spessissimo le persone non sono
conosciute, sia perché il sacramento non si può configurare come un colloquio
di aiuto morale, anche se può includere tale dimensione.
In simili casi,
la logica pastorale di AL vorrebbe –io credo- che si invitasse il fedele a un dialogo
personale in contesto non sacramentale, se possibile, o lo si rinviasse ad un
servizio diocesano disposto per l’accompagnamento delle persone in tali
situazioni.
Nel caso tuttavia che il fedele non possa accogliere
questi suggerimenti, il confessore seguirà le regole proprie della praxis confessarii concernenti il
giudizio sulla disposizione del penitente.
Quando
interviene il foro interno sacramentale infatti si attiva un tipo peculiare di
discernimento che è appunto quello sacramentale. Esso ha come soggetto il
confessore e come oggetto la disposizione del penitente. Secondo la dottrina
tradizionale[3], il confessore è chiamato
a valutare (giudicare) la disposizione morale del fedele –il suo pentimento nei
confronti dei peccati gravi dei quali ha coscienza -: solo il pentimento apre
l’assoluzione e l’ammissione all’eucaristia. Tale discernimento non ha la forma
di una sentenza di tipo giudiziario; è e deve essere - come ribadisce Reconciliatio et paenitentia- un giudizio di misericordia, teso a
cogliere ogni segno del pentimento che renda possibile l’effusione del perdono.
E’ un giudizio
che si basa pienamente su quanto il penitente comunica. Sottolineo quanto
appena detto: secondo la tradizione nel foro interno (tanto sacramentale quanto
non sacramentale) si deve sempre credere al penitente sia quando parla contro
di sé sia quando parla a suo favore, se non si danno prove evidenti in
contrario. E’ per questo, tra l’altro, che si è ammessa in passato la prassi
dell’accettazione della nullità della prima unione in foro interno, nel caso in
cui il confessore avesse acquisito la certezza morale di tale nullità, anche se
non dimostrabile in foro esterno. Tale possibilità è ancor oggi sostanzialmente
ammessa.
E’ inoltre un
giudizio che non parte da zero ma da una presunzione a favore del penitente. E’
regola della praxis confessarii che
il penitente si presume pentito
quando viene a confessarsi giacché ordinariamente il penitente viene
liberamente per avere il perdono dei propri peccati e non per altri motivi:
dunque venendo si riconosce peccatore e sa di avere bisogno di perdono. Ciò
spiega perché se non ci sono prove in contrario -ovvero prove per le quali il
confessore raggiunge la certezza morale che il penitente non è pentito dei
peccati gravi dei quali ha coscienza- chi viene a confessarsi deve essere
assolto.
Foro interno sacramentale e divorziati (civilmente)
risposati. Da Familiaris Consortio a Amoris Laetitia: la continuità dell’attitudine pastorale.
Chi legge Amoris laetitia si rende subito conto
che essa cerca e insiste sulla continuità con FC; in vari punti richiama FC o
vi si appoggia (ad es. quando presenta l’idea delle fasi di crescita morale, quando
invita all’attenzione alla diversità delle situazioni, quando tende ad
accogliere il più possibile le situazioni ‘irregolari’ ecc).
Si può dire
anche qualcosa di più: AL condivide profondamente l’attitudine pastorale di FC,
che nelle sue prime frasi al n.84 mostra il desiderio di andare incontro
pastoralmente il più possibile alla situazione dei divorziati risposati: “La
Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e
soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che - già
congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale - hanno cercato di passare a
nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro
disposizione i suoi mezzi di salvezza” .
E’ per questa tensione pastorale che FC, 84 mentre ha
ben presente l’ideale (la separazione dei coniugi in seconda unione non valida)
ammette una seconda possibilità, che non
corrisponde pienamente all’ideale ma vi si approssima.
Infatti, FC riconosce che si possono dare condizioni che
rendono l’ideale non praticabile perché ferirebbe importanti beni ed accoglie
una soluzione già proposta nella praxis
confessarii e fatta propria anche da alcuni episcopati (ad es. quello
italiano nel 1979), quella cioè di assolvere e ammettere all’eucaristia il
penitente disposto a vivere nella seconda unione come ‘fratello e sorella’
(cfr. Al,299, nota 329).
Non casualmente AL, 299 ricorda esplicitamente questa
apertura di FC: “La Chiesa
riconosce situazioni in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad
esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della
separazione» (FC,84)”.
Dunque, FC è così pastoralmente orientata che giunge ad aprirsi a una soluzione non
corrispondente all’ideale (la separazione) in considerazione del bene dei figli
o di altri seri motivi[4].
In qualche modo, tutto il capitolo 84 di FC delinea
un processo di integrazione: esso integra sacramentalmente le nuove unioni che accettano
di non considerarsi coniugali pur continuando a convivere per seri motivi;
integra, seppure non sacramentalmente, anche le coppie che non accettano la via
fratello-sorella questo giacché invita i fedeli ad aiutarle a non sentirsi
separate dalla Chiesa (non lo sono) e ne sollecita direttamente la
partecipazione alle diverse forme di vita ecclesiale[5].
Tuttavia, è ben
noto che FC ritiene di non poter andare oltre perché ultimamente il criterio
della verità oggettiva le appare determinante per l’ammissione all’eucaristia: la
nuova unione oggettivamente non è un vero
matrimonio. Lo dice chiaramente al n.84: “La Chiesa , tuttavia, ribadisce la sua
prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione
eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal
momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono
oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa , significata e
attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si
ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in
errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del
matrimonio”.
Amoris Laetitia, invece, pur partendo dalla
stessa attitudine pastorale e dalla stessa volontà di integrazione arriva a una
conclusione diversa proprio su questo punto. Come mai ?
Il passo avanti di Amoris Laetitia
Per
cogliere il vero significato di questo passo avanti è necessario considerare
attentamente un testo di AL,305: “A causa dei condizionamenti o dei
fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato
– che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si
possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella
vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa”. Questo testo conclude con una nota 351 sulla
quale torneremo successivamente.
Dopo quel che abbiamo osservato prima, non meraviglia
che tali parole dicano cose molto simili a quanto leggiamo in FC,84.. Quando
alludono alla condizione dei divorziati risposati dicendola “una situazione
oggettiva di peccato” in qualche modo ne constatano la contraddizione oggettiva.
Anche il riferimento fatto “all’aiuto della Chiesa” corrisponde alla mens di FC che sollecita i divorziati
risposati al rapporto con la Chiesa, anche se non possono accedere
all’eucaristia. Quando afferma poi la possibile convivenza tra grazia di Dio e
stato oggettivo di peccato dice qualcosa che fa parte del generale patrimonio
teologico, mostrato tra l’altro dalle citazioni di Tommaso largamente presenti nel
capitolo VIII di AL, patrimonio certamente
non negato da FC, 84.
Quel che appare nuovo in AL sta nella nota 351 ove si
dice chiaramente che tale aiuto della
Chiesa può essere costituito dai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia,
ovvero dall’assoluzione e dall’ammissione all’eucaristia.
La nota suona
così: “In
certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai
sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì
il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente
segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso
rimedio e un alimento per i deboli» (ibid.,
47: 1039)”.
AL ammette dunque
che nel foro interno sacramentale il confessore possa in alcuni casi assolvere e ammettere all’eucaristia divorziati
risposati –con nuova unione sicuramente invalida - che pure continuino
regolarmente la loro vita coniugale.
E’ evidente che
AL non vuole indicare una nuova norma al posto della norma indicata da FC,84:
essa letteralmente dice solo che in
alcuni casi la norma di FC,84 non obbliga il confessore. Ci si può chiedere
su quale base lo dica e qualcuno potrebbe dire che si tratta di un’innovazione,
un andare oltre la Tradizione. In realtà, si può dire piuttosto che AL arriva a
questo passaggio perché si mette in ascolto della tradizione morale della
Chiesa ancor più ampiamente di quanto FC,84 abbia fatto.
AL in ascolto dell’intera tradizione morale
della Chiesa.
I motivi che
portano FC,84 all’ esclusione dell’assoluzione/ammissione all’eucaristia sono
stati richiamati. Come abbiamo visto, sono motivi teologici, presenti nella tradizione, e motivi pastorali, in
particolare la preoccupazione per le sorti dell’indissolubilità anche tra i
cristiani.
C’è tuttavia un
principio fondamentale implicitamente assunto dal testo surricordato di FC,84 per
escludere i divorziati risposati dall’eucaristia: su di esso si basa
sostanzialmente l’esclusione espressa in termini generali. Il principio è
questo: non può essere mai ammesso
all’eucaristia chi vive una contraddizione oggettiva con quanto significato
oggettivamente dall’eucaristia.
Ebbene, il
principio in tale forma assoluta non
si ritrova nella tradizione; anzi si può affermare decisamente che la tradizione e la prassi morale della Chiesa non
conoscono questa assolutizzazione.
Parte della
tradizione morale infatti è anche tutto il patrimonio della praxis confessarii che ha offerto nei
secoli prospettive più ampie e ha incluso anche eventualità diverse. Ad
esempio, la praxis sa che per
l’assoluzione non si può esigere dal penitente pentito più di quanto possa dare.
Ci sono circostanze nelle quali non si può chiedere al penitente -per
assolverlo e ammetterlo alla comunione- che lasci una situazione di grave
pericolo morale se questo significa provocare danni gravi a sé, ai propri cari
o a persone verso le quali si hanno serie responsabilità: la teologia morale
parla allora di “occasioni prossime di peccato necessarie”. Così la tradizione
conosce circostanze nelle quali non si
deve cercare di cambiare le convinzioni oggettivamente sbagliate di una
persona, che o non capisce o non può capire la verità di alcune posizioni
morali della Chiesa, per assolverla e ammetterla alla comunione. Sono quelle
circostanze nelle quali il penitente è in ‘ignoranza invincibile’ o in
condizione di ‘coscienza soggettivamente difendibile” (si tenga conto di quanto
sopra detto sul peccato grave). In tali circostanze, secondo la valutazione del
confessore e tenendo conto del bene del penitente, è possibile assolvere e
ammettere all’eucaristia anche se il confessore sa che si tratta per la Chiesa di
un disordine oggettivo. Una situazione ben nota della tradizione è quella della
coscienza perplessa, il caso cioè
della persona che ritiene in coscienza che comunque agisca fa male ma non può
esimersi dall’agire: la teologia morale cattolica afferma da sempre che il
soggetto è chiamato a scegliere il male minore e che nel fare il male minore
non è colpevole. Di fatto è assolto e fa la comunione. Analogo è il caso nel
quale il soggetto si trova dinanzi alla necessità di scegliere tra valori che
orientano a comportamenti che in situazione confliggono e sceglie i valori
preminenti non in sé ma nella sua concreta condizione e nel suo contesto
esistenziale.
Queste posizioni
della praxis, ben presenti nella
storia morale cattolica, non negano il principio
usato da FC ma non lo assolutizzano, costantemente lo interpretano e lo
‘economizzano’ – come direbbero gli orientali- in rapporto alle concrete persone
e al loro cammino cristiano.
Esse attestano che la tradizione considerata
in tutta la sua ampiezza ha ammesso e ammette la partecipazione all’eucaristia anche
in alcuni casi di incoerenza tra situazione oggettiva delle persone e oggettivo
significato dell’eucaristia, ha cioè ritenuto e ritiene che la
contraddizione oggettiva di vita non prevalga sempre sulla considerazione del
bene del penitente.
In contesti
simili il sacramento è visto non come premio dei perfetti (soggettivamente e/o
oggettivamente) ma come aiuto nel
cammino a persone la cui colpevolezza soggettiva è fortemente diminuita o
assente, non come consacrazione della piena verità dell’esistenza ma come
forza/luce donata per crescere nella conoscenza e attuazione dell’esistenza
cristiana .
In altre parole, AL richiama quella parte della tradizione
–la stessa tradizione per altro di FC- che non assolutizza il criterio ma lo relativizza
e lo subordina al bene della persona (delle persone): si danno circostanze
infatti nelle quali ogni norma va ricondotta al suo fine proprio che è la salus animarum, il bene delle persone.
La conditio
sine qua non per l’aiuto sacramentale
Nella prospettiva di AL ciò che si richiede perché si
attivi l’aiuto sacramentale è che sia per
il bene della persona (delle persone) nel suo (loro) cammino cristiano. Cosa
che Amoris Laetitia senza dubbio fa.
Essa mette in guardia da alcune situazioni che non
possono essere considerate in questa luce: “Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se
facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da
quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di
predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr Mt
18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito
alla conversione”(AL,297). Inoltre dal momento che la stessa logica
dell’integrazione deve evitare ogni occasione certa di scandalo (cfr. AL,299), anche
questo aspetto va tenuto presente nel discernimento sacramentale.
Vanno poi secondo AL presi in considerazione anche
alcuni criteri positivi di discernimento. AL,293 indica l’esistenza di alcuni dati
oggettivamente verificabili: stabilità e pubblicità del vincolo, affetto
reciproco, responsabilità verso i figli ecc. Altri elementi sono tratti dal modo
in cui il fedele si muove nel dialogo pastorale e nel rapporto sacramentale: “Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla
formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una
più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono
favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cfr
Familiaris consortio, 34), questo
discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità
del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le
necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo
insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di
giungere ad una risposta più perfetta ad essa» (Relatio finalis 2015, 86). Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave
rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa
concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere
privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona
responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di
sopra del bene comune della Chiesa, con un Pastore che sa riconoscere la
serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un
determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia
morale” (AL,300).
Questo quadro di criteri può essere allargato, sulla stessa linea
di discernimento: ricordo un dato tradizionale, cioè la considerazione
dell’assolvimento dei doveri nei confronti delle persone coinvolte nella prima
unione e i tentativi di riconciliazione esperiti.
Dal punto di vista della determinazione dei criteri appare
particolarmente importante quanto leggiamo in AL, 298. Ivi, infatti, l’Esortazione, nell’intento di mostrare la
varietà delle situazioni, offre vari casi possibili utilizzando anche quanto detto
da FC,84 sui casi nei quali la separazione non sarebbe giusta. In particolare
ricorda un caso di “una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli,
con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza
dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare
indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe”. AL sa bene
quel che dice FC in un simile caso, ma non può esimersi dall’osservare nella
nota 329 che la mancanza di intimità potrebbe portare a mettere in pericolo la
fedeltà della seconda unione e il bene dei figli. Questa nota allude abbastanza
chiaramente alla possibilità che in casi simili il bene dei figli e il bene
connesso della stabilità coniugale della seconda unione –ormai irreversibile- siano
tra i criteri che conducono il ‘discernimento personale e pastorale’ all’ammissione all’eucaristia.
AL, 298 offre altri casi possibili, tra i quali va notato in
particolare quello del coniuge ingiustamente abbandonato e unito in nuova
unione stabile.
Il confessore cattolico in mezzo al guado
tra FC e AL. La bellezza e la centralità del suo ruolo
Non c’è dubbio
che ogni confessore cattolico in questo momento si trova in mezzo al guado tra
FC e AL. Non si può negare lo sconcerto e la confusione di molti.
La FC, anche se
la sua soluzione si è rivelata sempre più limitata e insufficiente, ha offerto
tuttavia per anni un quadro di riferimento dotato di autorità. Il confessore ha
potuto continuare ad essere più un applicatore della norma che un pastore e un
padre personalmente coinvolto nel bene del penitente e nel suo cammino
cristiano.
Oggi l’attitudine
indicata da AL esige che il confessore assuma maggiore responsabilità personale
nel valutare il bene del penitente e delle persone coinvolte dal suo agire, con
cuore misericordioso e con intento terapeutico. Il suo ruolo è certamente assai
più impegnativo. Bisogna però dire che diventa anche più significativo, più
ricco e più ministerialmente pieno.
Lo fanno
percepire profondamente alcune parole di papa Francesco dette a tutti i
confessori e che tutti i confessori dovrebbero ben meditare:
“E bisogna guardarsi dai due
estremi opposti: il rigorismo e il lassismo. Nessuno dei due fa bene, perché in
realtà non si fanno carico della persona del penitente. Invece la misericordia
ascolta veramente con il cuore di Dio e vuole accompagnare l’anima nel cammino
della riconciliazione. La Confessione non è un tribunale di condanna, ma
esperienza di perdono e di misericordia!”[6].
“Tante volte si
confonde la misericordia con l’essere confessore “di manica larga”. Ma pensate
questo: né un confessore di manica larga, né un confessore rigido è
misericordioso. Nessuno dei due. Il primo, perché dice: “Vai avanti, questo non
è peccato, vai, vai!”. L’altro, perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno
dei due tratta il penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna
nel suo percorso di conversione! L’uno dice: “Vai tranquillo, Dio perdona
tutto. Vai, vai!”. L’altro dice: “No, la legge dice no”. Invece, il
misericordioso lo ascolta, lo perdona, ma se ne fa carico e lo accompagna,
perché la conversione sì, incomincia – forse – oggi, ma deve continuare con la
perseveranza… Lo prende su di sé, come il Buon Pastore che va a cercare la
pecora smarrita e la prende su di sé. Ma non bisogna confondere: questo è molto
importante. Misericordia significa prendersi carico del fratello o della
sorella e aiutarli a camminare. Non dire “ah, no, vai, vai!”, o la rigidità.
Questo è molto importante. E chi può fare questo? Il confessore che prega, il
confessore che piange, il confessore che sa che è più peccatore del penitente,
e se non ha fatto quella cosa brutta che dice il penitente, è per semplice
grazia di Dio. Misericordioso è essere vicino e accompagnare il processo della
conversione”[7].
* Il testo sarà pubblicato su Il Regno-attualità n. 8,2016,243.
[1] Cfr. sulle questioni
riguardanti tali due momenti in generale il mio Fare il confessore oggi, Dehoniane, Bologna 2012.
[2] Si veda il can. 960 del
CIC.
[3] Si veda il can. 980 del
CIC.
[4] E’ noto che FC non entra nella questione delle eventuali
cadute (sessuali) successive all’accettazione da parte del penitente della via
fratello-sorella. Va però ricordato che negli anni successivi alla FC è diventa
prassi quasi universale –almeno in Italia- che le eventuali cadute non
impedissero l’assoluzione permanendo la sincera e adeguata volontà del
penitente di non vivere in forma
coniugale.
[5] FC, 84 esorta pastori e
fedeli ad aiutare i divorziati risposati a non considerarsi separati dalla
Chiesa, “potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua
vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio
della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di
carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i
figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per
implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per
loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella
fede e nella speranza”.
[6] Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria
Apostolica, 28 marzo 2014.
[7] Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria
Apostolica, 12 marzo 2015
Preciso che non ho avuto tempo di leggere tutto l’articolo, ma lo farò quanto prima. Ho trovato però un passaggio che non riesco a digerire:
RispondiEliminaE’ importante sottolineare che questo aiuto al discernimento personale di tipo pratico da parte del pastore non deve essere interpretato come un aiuto a ben applicare la norma alla situazione ma come un aiuto perché la coscienza colga la concreta possibilità del bene ovvero il bene possibile in situazione.
In una situazione concreta di adulterio, quale ostacolo si può immaginare tale da essere insuperabile al punto da rendere impossibile la realizzazione del bene e quindi doversi accontentare di un “bene possibile”? Vorrei una risposta concreta.
Il “bene possibile”, per come lo capisco io, non è bene ma mancanza di bene. In una relazione adulterina l’eventuale presenza di “semi di bene”, come potrebbe essere una sincera disponibilità al sacrificio verso la famiglia frutto dell’adulterio, non può cancellare ciò che resta un male, cioè l’adulterio. Se gli adulteri non riescono a venir fuori dal loro peccato, possono comunque continuare a pregare che Dio li aiuti a diventare santi, cioè ad abbandonare, alla fine, il loro peccato. E se non riuscissero ad abbandonare l’adulterio prima della morte, potrebbero comunque, in un ultimo sussulto di vita, invocare la misericordia di Dio e chiedere perdono, prima di morire, del peccato dell’adulterio di cui non sono riusciti a liberarsi: certamente Iddio non rifiuterebbe loro il perdono e potrebbero salvarsi e godere il paradiso per l’eternità.
Ma se, invece, si insegna loro che la loro relazione adulterina:
1) è tutto quello che, per ora, possono offrire al Signore, e che…
2) è il “bene possibile”, che però “non è un bene impuro o indegno” ma, anzi, è un bene che può essere alternativo (???) al bene…
… be’, io credo che questo sia un insegnamento falso e che rischiamo di renderci corresponsabili della loro eventuale dannazione a causa dell’adulterio.